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Recensione: Conta le stelle se puoi di Elena Loewenthal (ediz. Einaudi 2008)

Al supermercato, tra un surgelato ed un rotolone di carta Scottex, nel poco fornito scaffale dei libri in promozione, l'occhio mi è caduto su questo libro dalla copertina un po' retrò in bianco e nero, e siccome a volte i libri si scelgono anche dalle copertine e grazie a fortunate intuizioni....il romanzo è finito nel carrello, lo definirei un "incontro" fortunato!
Conta le stelle se puoi è  un piccolo gioiello, imperdibile per chi, come me, ama le saghe famigliari.
"Ed il Signore disse ad Abramo, guarda il cielo e conta le stelle, se puoi contarle...aggiunse, così numerosa sarà la tua stirpe".
Con quest incipit si apre il romanzo e noi lettori conosciamo "nonno Moise", che a quell'epoca, siamo alla fine dell'800, è ancora un ragazzo, non ancora nonno, ma già un giovane intraprendente, solido e con grande fiuto per gli affari. Moise è destinato a fare fortuna e a dare vita ad una dinastia numerosa, quella dei Levi, che di generazione in generazione sopravviverà fino ai giorni nostri, espandendosi in ogni parte del mondo. 
Nonno Moise (Moisin), pilastro del romanzo, lascia la sua umile famiglia ed il paese natale, Fossano, in Piemonte, ed inizia il suo viaggio portando con sé solo un carretto pieno di stracci; noi partiamo con lui alla volta di Torino e di una nuova vita, destinata ad essere lunga e ricca.
A Torino, infatti, Moise farà fortuna, si sposerà due volte, avrà sei figli ed un'infinità di nipoti e pronipoti, costruirà la sua dimora in via Maria Vittoria, dove un tempo c'era il ghetto; una casa di famiglia che accoglierà generazioni di Levi e con loro la storia di oltre un secolo, tra arrivi, partenze, nascite e lutti, lacrime e risate, tradizioni e grandi cambiamenti.
La Loewenthal ci regala un potente affresco famigliare, in cui la quotidianità della vita diventa vera protagonista. 
Il romanzo non offre colpi di scena o grandi sorprese, chi cerca un libro d'azione rimane deluso, offre invece un susseguirsi di piccole, grandi emozioni che accompagnano i personaggi nella loro ricerca della "terra promessa", intesa non solo come luogo geografico, ma come luogo dell'anima. Quella Terra Promessa che per nonno Moise è la casa di Via Maria Vittoria e l'abbraccio, caldo e profumato di ricordi, di Cesira, che per Ida è un kibbutz nella neonata terra d'Israele, per Perla la cabina di un piroscafo che la porta verso i figli sparsi per il mondo.
Quando, dopo la grande guerra, il romanzo si addentra in un'epoca storica che lascia presagire la tragedia del nazismo, dell'olocausto, della deportazione ed il lettore è pronto a versare lacrime sulle sorti della famiglia Levi, l'unica grande sorpresa è leggere che "a quel brutto muso di Mussolini" nel '24 gli è preso un "colpo secco". 
Con questo artificio narrativo l'autrice abolisce l'orrore per raccontare e festeggiare la vita; la Loewenthal spiega la sua scelta con queste parole, che ho trovato davvero toccanti:
"Il lettore non avrà difficoltà a convincersi che questa non è una storia vera. Quella vera...... è svanita dentro le ciminiere dei forni crematori, nelle camere a gas, nelle fosse comuni.
Allora, ho voluto provare a non arrendermi alla verità della Storia.
A immaginarne una, inventata ma verosimile, come se non fosse successo quello che è successo. E costruirla insieme a chi non c’è piú.
L’ho scritta per non arrendermi al silenzio di quei morti. Per provare, una volta tanto, a pensare la Storia non senza di loro, ma insieme a loro. Immaginandoli accanto a me. A noi........ho cercato di lasciare tutto o quasi com’era e come è stato, ma senza la Shoah. Perché la Shoah non sta dentro, sta fuori dalla nostra storia. È silenzio di morte, invece che vita e parole.
Cosí, siamo diventati molti di piú.
Dedico questa storia a tutti coloro che hanno vissuto quell’altra, purtroppo vera. A chi non è mai piú tornato. A chi l’ha attraversata, per raccontarla. O per tacerla, proprio come faceva mia nonna".

Se all'inizio avevo storto un po' il naso all'idea di una simile "revisione" della Storia...dopo aver letto queste righe ed aver "conosciuto" la famiglia Levi, mi sono davvero ricreduta: esiste modo più delicato e partecipe di ricordare chi non c'è più?
L'autrice racconta davvero "quello che poteva essere", lo fa con una prosa elegante, in cui l'italiano è spesso intervallato da detti e frasi in dialetto piemontese e con uno stile semplice ed incisivo.

 e mezzo!

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