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Recensione: Gli anni al contrario di Nadia Terranova (Ediz. Einaudi, 2015).

"Messina, 1977. Aurora, figlia del fascistissimo Silini, ha sin da piccola l'abitudine di rifugiarsi in bagno a studiare, per prendere tutti nove immaginando di emanciparsi dalla sua famiglia, che le sta stretta. Giovanni è sempre stato lo scavezzacollo dei Santatorre, ce l'ha con il padre e il suo "comunismo che odora di sconfitta", e vuole fare la rivoluzione. I due si incontrano all'università, e pochi mesi dopo aspettano già una bambina. La vita insieme però si rivela diversa da come l'avevano fantasticata. Perché la frustrazione e la paura del fallimento possono offendere anche il legame più appassionato. Perché persino l'amore più forte può essere tradito dalla Storia".

Nel 1977, quando Aurora e Giovanni si incontrano a Messina, io andavo alle scuole elementari e Nadia Terranova, l'autrice del romanzo, era probabilmente nella pancia della mamma. Aurora e Giovanni non rappresentano la nostra generazione: per me potrebbero essere i fratelli maggiori delle mie amiche (io in famiglia sono la più grande), per la Terranova i genitori.
Eppure la ricostruzione storica di questo romanzo è impeccabile nella sua linearità, colpisce il cuore e non solo.
Gli anni al contrario è la storia di un amore e di un matrimonio senza lieto fine, come tanti, ma è soprattutto la storia di due vite che finiscono impigliate nelle maglie della Storia, quella vera.
Sono gli anni di piombo, della violenza, del terrorismo, della droga, ma anche della voglia di cambiare il mondo; anni lontani che il romanzo racconta in punta di piedi, facendo affiorare, in chi quel periodo lo ha anche solo "sfiorato", ricordi vividi. 
Alla fine degli anni '70, la mamma raccomandava a noi bambini di stare attenti a tutto ciò che toccavamo per terra, nei prati, sotto le panchine, perfino nel parco giochi per bimbi: quelle piccole, maledette, siringhe erano ovunque, come i ragazzi, che a me parevano uomini fatti, stravaccati per terra, in gruppo o da soli, gli occhi persi o chiusi, nelle vene il veleno che uccide piano piano i sogni. Con le amiche spiavamo le festine dei fratelli più grandi, attirate ed incuriosite dalle chitarre, dalle camicie fiorate, dai jeans a zampa, dai libri e dalle sigarette; ci sembrano tutti così sicuri di sé, impegnati e "felici", ma noi eravamo solo bambini.
Più tardi arrivò la violenza, un'eco lontana per noi piccoli, ma pur sempre impressa indelebilmente nella nostra memoria. E così, mentre nel romanzo Aurora cerca di proteggere la figlia Mara da quel padre scavezzacollo che non mette mai la testa a posto e scompare per giorni con tipi poco raccomandabili, noi, seduti davanti alla tv, fissavamo confusi l'emblema del sangue e della lotta armata: il corpo straziato di Aldo Moro, rapito e poi ucciso dalle brigate rosse. 
Anni dopo, passate le stragi, i rapimenti, gli omicidi, mentre Mara nel libro cresce e Aurora cerca disperatamente di dimenticare, io, ormai prossima alla laurea, mi scontravo, per lavoro, con persone come Giovanni. Uomini e donne scampati a decenni di tossicodipendenza, i denti rovinati, il fisico minato, le famiglie ed i sogni distrutti alle spalle. Sopravvissuti ad un'epoca, ma destinati, in tanti, a soccombere alle malattie che i paradisi artificiali avevano subdolamente portato con sé. 
In poco più di 100 pagine di romanzo, Nadia Terranova racconta tutto questo: lo fa con uno stile asciutto, senza fronzoli, ponendosi assolutamente al di fuori della storia e dei personaggi. Non parteggia, non giustifica, non accusa: il suo è quasi un documentario in bianco e nero, sta a noi lettori mettere i colori, che siano quelli dei ricordi, delle idee o dell'immaginazione, poco importa.
Triste, ma consigliato.

Genere: racconto generazionale.
Pagine: 144
Voto: 


Commenti

  1. E' molto nelle mie corde. Segnato! ;)

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  2. Lo segno anch'io, da quello che hai scritto penso possa piacermi ;)
    Grazie!

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  3. Penso sia una scrittrice che merita di essere letta e fatta conoscere a tanti ma tanti lettori. Brava.

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